20 agosto 2009

Ferragosto e le gioie della specola

Il nostro Presidente ci ha inviato, dalla località segreta in cui sta trascorrendo gli ozi estivi, il temino che segue. Aggiungeremmo, a proposito, che il 18 agosto nella sua bacheca di Facebook si è potuto leggere: «Marco gode: sono le cinque e mezza del mattino e vede, a Oriente, non solo la falce di luna ma pure, poco sopra, la falce di Venere! difatti pure Venere ha fasi, essendo un pianeta interno»; e all'alba del 19 agosto, agnoscendo un terzo astro notevole: «Marco ammira la luna, Venere e Marte, tra sé all'incirca equidistanti lungo l'eclittica»; ecc.



Marco Palasciano
Ferragosto e le gioie della specola

1.
Quest’oggi mi trovavo, per recare a sua madre due orazioni chicheroniane (Pro Cælio e Pro Milone), da mademoiselle G., decana delle mie Muse terrene, la quale tra tre giorni potrò dire essermi amica da giusto un numero d’anni uguale al numero di catalogo dell’asteroide Talía; riso e poesia le nostre voluttà. E dalla sua finestra, che butta a Oriente e al grosso della città che ci ospita, si vedeva poco alto nel cielo un astro fortemente luminoso che, per la forma nitida e rotonda anziché raggiata e tremula, supposi essere uno dei pianeti del sistema solare, anziché Sirio o altra stella.
Si sarebbe potuto pensare a Venere. Ma, essendo circa le nove della sera e noi guardando ai monti e non al mare, dissi ciò essere impossibile, poiché Venere viaggia sempre a non grande distanza angolare dal sole; e il sole, a quell’ora, era da non molto tramontato; cosicché adesso Venere doveva, se non essere tramontato anch’esso*, quantomeno trovarsi non distante dal punto del tramonto del sole, a nord di Ischia: vale a dire nell’opposta zona del cielo rispetto a quella in cui luceva l’astro da noi indagato, che era sopra il Tifata. Per la stessa ragione non poteva trattarsi di Mercurio, che è il corpo osservabile piú vicino al nostro sole.
Io avevo pensato, dapprima, a Marte; ma, il colorito dell’astro avanti a noi non essendo rubescente né citrino, bensí albescente, mi venne in breve da pensare a Giove. Per dare, alla mia Talía in lieve scepsi, demonstratio di questa mia pensata, ratto valutai la posizione dell’astro come – avendo la Terra come fulcro – diametralmente opposta, grado piú grado meno, alla posizione del disparso sole; e poiché oggi era il 15 di agosto, e dunque il sole doveva trovarsi all’incirca al venticinquesimo grado della porzione di zodiaco che gli astrologi chiamano segno del Leone (benché l’omonima costellazione sia altrove), l’opposto astro doveva trovarsi tra gli ultimi gradi del segno dell’Acquario e i primi di quello dei Pesci; e venendomi alla memoria che per la piú parte del corrente anno 2009 e.v. Giove è stato e sarà in piú o meno stretta congiunzione apparente con Nettuno, il quale essendo di lentissima rivoluzione ero sicuro trovarsi dove l’avevo lasciato all’ultima consultazione delle effemeridi e cioè in Acquario, era ormai altissima la probabilità che ciò che vedevamo risplendere in quel punto fosse Giove.
Difatti, se non fosse stato Giove, noi avremmo dovuto tuttavia scorgere Giove nei dintorni, le dissi, perché quando si trova in opposizione al sole esso è al sommo del suo splendore, come una luna in miniatura nella fase di plenitudine, e non può non vedersi; e ora in quel lembo di cielo, tutto sgombro di nuvole, non si mostrava luce naturale che splendesse con intensità commensurabile a quella del magnifico astro che aveva risvegliata la nostra curiosità.
Piú tardi mi sarei – tra me meglio ragionando – accorto della sciocchezza che avevo escreta con l’includere tra gli argomenti quell’ultimo, peraltro superfluo, delle fasi di Giove; le quali non esistono, per noi, com’è ovvio; infatti – diversamente da Mercurio e Venere – esso percorre un’orbita piú larga, e remota dal sole, di quella della Terra; ed è perciò, dal punto di vista terrestre, sempre in piena luce, che sia in opposizione o no al sole.



Giove.

2.
Salutata, intanto, mademoiselle G. e dopo breve tragitto su ruote fatto rientro nell’usato albergo, avevo lasciato che dalla pulsione a investigare la volta celeste mi distraessero i piaceri della lettura, avendo da terminare il De Iside et Osiride di Plutarco; cosicché dovette farsi l’una di notte, prima che lo pneuma dell’astrofilia mi tornasse a fluttuare nello specchio della mente.
Allora, essendo trascorse circa quattro ore dalla precedente osservazione, e perciò dovendo gli astri essere ruotati intorno alla Terra e a questo edificio d’un sufficiente numero di gradi, uscii sul balcone occidentale; riconobbi nel nero infinito del Tutto, tra le stelle sbiadite dai nostrani tungsteni e neon, quella sferula candida; rientrato, ravvivai l’elaboratore e lo collegai alla rete telematica mondiale, per consultare le effemeridi; e queste a ogni mia tesi diedero felice conferma, per il che fui felice come un puer.
Presi quindi il modesto cannocchiale col quale da quassú, in certi pomeriggi, quando il sole e la dolce aura con piú calore invitano a levarsi le magliette, uso studiare la statica e la dinamica dei torsi nudi degli adolescenti che si provano, dabbasso, nella corsa su skateboard tra orti e mura o, di ciò sazi, posano in panchina; e lo rivolsi, con non minore voluttà, verso l’alto, stavolta, e il massimo pianeta del sistema.
Non avendo tra mano che un Беркут** 10×46 (eredità; ma in Accademia dovremmo avere, non so in che ripostiglio, migliore telescopio), di Giove non distinguevo né il bandeggio atmosferico né, conseguentemente, la Grande macchia rossa. Ma forse, i quattro punti luminosi apparentemente in orbita intorno al pianeta – se non mie traveggole – erano i Satelliti medícei***? Io, Europa, Ganimède e Callisto?
Invitavo frattanto la mia vicina di stanza, l’anziana e tenera madame B., a guardare anche lei nel cannocchiale, spiegandole quel che ora ho a voi spiegato (tacendo i torsi dei ganimèdi); e preso un tomo d’enciclopediòla a illustrare la mia ciceronata urania, le additavo una foto del pianeta – il quale né io né lei avevamo mai, prima d’oggi, contemplato dal vero.
La scienza dei paesaggi extraterrestri non l’ha mai interessata, com’è per tante anime, cui la vita domestica o le lettere modulano piú piacevole richiamo: sicché per lei è fonte di stupore che Giove sia piú grande della Terra. Similmente mademoiselle G., poc’anzi, si stupiva del fatto che – come le dicevo elencandole i pianeti – la Terra sia meno grande pure di Nettuno. Lacune nozionistiche che erano, naturalmente, non colpa propria di due cosí egregie donne, bensí dei saperi divisi e delle prassi impazzite del mondo contemporaneo****.
Quanto a corpi osservabili del sistema solare, non avevo puntato prima d’oggi il Беркут che su Marte, una volta, sapendolo in perielio; e, piú volte, sulla luna: ciò quando, supertonda e corrusca contro il nero, getta il suo richiamo invadente da oltre le mie finestre quasi specchi, ostendendo nettissime le sagome di Caino e della sua gerla, io allo scrittoio mente noctilúca. D’astronomia e (nosce hostem tuum) astrologia so tanto sulla carta, quanto poco finora ho guardato nel cielo stellato, poco fidando nella sua stellatezza e guardabilità: l’inquinamento luminoso scuora. Dice il poeta:


Ah, ridateci il buio, sí, ridateci
il buio. Sí da riveder le stelle.*****


Da sinistra a destra: Io, Europa, Ganimede, Callisto.

3.
Come che sia, riconoscere un pianeta nel cielo piú o meno stellato può compararsi (ma ditemi se è un’iperbole miope) al riconoscimento di un diamante in una sparsa di chicchi di vetro, o una Musa tra quattrocento amiche, essendoci qualche migliaio di stelle visibili a occhio nudo dalla Terra e però, tra esse mimetizzati, solo sette pianeti; dei quali il piú lontano, poi, Nettuno******, a occhio nudo visibile non è.
Ora, se vi interessa e apprenderete la coreografia essenziale degli astri, vi basteranno pochi lambiccamenti tattà come quelli da me oggi spappardellati a casa di mademoiselle G. e potrete godere della stessa felicità che mi ha stanotte psicoenergizzato e spinto alla scrittura di questo supplemento diaristico (che gli astrofili veri avranno letto sorridendo della sua veste infarinata; ma essi credano: è piuttosto l’eclettismo dispersorio e lunatico che non l’accidia, o l’atarassia, a trattenermi da piú fondi studi in questa materia).
Non c’è che l’esercizio dell’intelligenza, in abbinata con il dendromorfo accrescimento dell'enciclopedia personale, a difenderci dal pericolo di restare increduli davanti al vero e creduli davanti al falso; le quali aberrazioni gnoseologiche contristano non tanto le mie Muse e Matres, in genere eccellenti ragionatrici, cui non rende giustizia questo mio specialistico racconto; quanto chi, nato dal nulla per esser nulla e finire in nulla, senza un murmure di protesta lascia che la piú brutta delle dee, Abitudine, lo vampirizzi tutto: cosí ti fai incapace di rinnovarti, e vivi come un morto.
Resta qui a dirsi che rinnovamento può anche significare rimettere in uso qualcosa che è in disuso; per esempio raccogliere un domani, dall’imo d’uno stipo scordato e ricordato, quel nostro telescopio dalla migliore acie, perché possiamo meglio contemplare – splenda di luce propria o di riflessa – ogni corpo splendente, sempre anelando a quella che il monaco eretico Giovanni Scoto Eriugena chiamava anagogia.



* Era non solo tramontato (come avrei appreso poi dalle effemeridi), al pari di Mercurio e di Saturno, ma già sotto i nostri piedi, cioè al nadir; presso il quale si trovavano, a quell’ora, anche la luna e Marte, nonché Sirio.

** Traslitterato: «Berkut». Tradotto: «Aquila».

*** Cioè i quattro maggiori satelliti di Giove, omonimi di amanti del dio omonimo, dedicati da Galileo Galilei – che li scoperse nel 1610 – a Cosimo II de’ Medici, Granduca di Toscana. Ganimede, il maggiore, prende nome dal giovinetto che il dio, trasformato in aquila, rapí dai pascoli del monte Ida e a volo portò con sé sull’Olimpo; per rapire o sedurre le tre donne, invece, Giove si trasformò ora in toro (per Europa), ora in nebbia (per Io), ora in sosia della dea Diana (per la lesbica Callisto).

**** Cfr. Carlo Sini, finale di Filosofia teoretica, in AA.VV., Filosofia, Jaca Book, 1992. Intanto m’è tornato alla memoria un aneddoto risalente alle scuole elementari. Parlai una volta di Giove a un compagno di classe; e non voleva credere alle sue dimensioni. Il giorno dopo, gli portai un libro che le documentava; ma, anche di fronte a quello, persisté – con mia ingenua meraviglia – nel rifiuto di accettare che il suo mondo non fosse il piú grande di tutti. È un aneddoto chiave del mio vissuto: perché fu di preciso in quell’occasione che cominciai a pensare di essere piú intelligente degli altri bambini; la cui ignoranza si poteva perdonare, ma non l’ottusità.

***** Marco Palasciano, da Lo spettro d’Orfeo, in Sui termitai mostruosi dell’urbe novissima, 1996.

****** A Plutone non è ormai piú attribuita la qualifica di pianeta, dati i nuovi criteri, ma di semplice asteroide.


Ganimede e l'aquila. Palazzo Giorgi Roffi Isabelli, Ferentino.

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